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A
proposito di psicoanalisi ...
- In
tema di riflessione teorica, diremo
che l’esistenza, teorizzata da Freud
come dalla Klein e dalla Mahler, di
stati “morbosi” nel bambino
fisiologicamente connessi al suo
percorso evolutivo, ed esitanti, di
volta in volta, nel bambino
“perverso polimorfo”, nel bambino “schizoparanoide”,
nel bambino “depresso” come anche
nel bambino “autistico”, non trova
alcun riscontro agli effetti di
studi sviluppati su base empirica.
L’esistenza di tali stati morbosi
funzional-evolutivi è quindi da
ritenersi come puramente mitologica.
Questa ingiustificata consuetudine
teorica di postulare stati
patologici funzionali nello sviluppo
psicologico umano, la si deve
senz’altro all’esempio dato da
Sigmund Freud. In questo senso, la
logica interpretativa di massima
divenne quindi: “Se sei
psicologicamente patologico in età
adulta è perché non sei riuscito a
superare le tue patologie
evolutivo-funzionali in infanzia”.
Peccato che tutto questo non trovi
alcun riscontro, agli effetti
dell’osservazione del comportamento
infantile. E non mi si venga a dire
che questi presunti stati morbosi
del bambino hanno luogo in una
dimensione di inconscietà del
vissuto piccolo-infantile, e che
sono quindi totalmente al di fuori
della possibilità di essere
descritti e riportati sul piano
fenomenologico. Non si può fare
scienza su ciò che non può essere
descrittivamente colto. Mitologia
per mitologia, mi piace di più
pensare di essere influenzato, nel
mio vissuto psicologico, da vite
precedenti, come sostiene il dottor
Nader Butto (Butto, 1998), piuttosto
che credere al fatto che c’è stato
un tempo in cui avrei voluto unirmi
carnalmente a mia madre ed uccidere
mio padre. D’altra parte, se
qualcuno può dimostrare
scientificamente che le cose
realmente stanno come diceva Freud,
piuttosto che come diceva la Klein o
la Mahler, non ha che da farcelo
sapere. La cultura di base che
sostiene il modello standard ci
rende aperti a tutti i dati di
conoscenza che possano essere
scientificamente sostenibili.
Parafrasando il grande epistemologo
Paul Karl Feyerabend, ciò che è
elemento di superstizione oggi
potrebbe anche diventare dato di
scienza domani; ma questo elemento
di superstizione lo deve, appunto,
prima diventare un dato di scienza,
per essere considerato tale.
A proposito di questioni
epistemologiche ...
……… Come avremo modo di apprezzare
nel prosieguo di quest’opera, in
psicologia clinica esistono ancora
delle disomogeneità epistemologiche
che contribuiscono alla sua
parcellizzazione teorico-tecnica. Al
fine di affrontare con chiarezza di
idee gli stucchevoli ed inutili
accademisti sviluppati intorno a
questo argomento, varrà la pena
delineare il percorso di riflessione
filosofica che dovrebbe sostenere la
posizione da affermare,
relativamente alla questione, con il
modello standard. Per circa
duemilacinquecento anni, a partire
dalla filosofia greca, il pensiero
occidentale è andato alla ricerca
degli “immutabili”, ovvero di quelle
risposte alle questioni fondamentali
dell’esistenza che potessero essere
fornite in via assoluta
(incontrovertibile) e definitiva.
Queste risposte avrebbero dovuto
avere carattere “epistemico”, e
quindi essere la cornice immutabile
in grado di spiegare, di dare senso,
alle manifestazioni divenienti
dell’“essere” (nell’accezione di
“totalità di ciò che esiste”), così
come si presentano nella cangiante
esperienza che noi abbiamo del
“mondo” (ovvero di ciò che possiamo
esperire). Da qui, le innumerevoli
voci d’autore che si sono espresse
intorno a questioni come “essere e
divenire”, “essere e nulla”,
“necessità logica di un momento
della creazione, e quindi di un
creatore”, “conoscenza assoluta o
relativa del mondo” (che ci
interessa particolarmente per il
nostro discorso) e via dicendo. Ora,
questo miraggio della ricerca di
contenuti di conoscenza epistemici
inizia inesorabilmente a svanire con
l’opera del grande filosofo tedesco
Immanuel Kant, allorquando la
“metafisica” viene relegata fuori da
qualsiasi possibilità di indagine
razionale, ed il “conoscere” stesso
viene subordinato all’esistenza di
“categorie a priori” della mente
(che danno forma alla nostra
esperienza del mondo), impedendo per
definizione qualsiasi possibilità di
“conoscere” in senso assoluto. Il
tentativo dell’Idealismo, con Hegel
in prima fila, di riaffermare la
conoscenza in senso assoluto, non
sarebbe riuscito ad invertire il
processo di distruzione degli
immutabili inaugurato da Kant: il
solo risultato generato sarebbe
stata la veemente reazione di
filosofi come Nietzsche e
Schopenauer, che avrebbero dato una
definitiva spinta al pensiero
occidentale nella direzione dell’era
del “nichilismo”. In tutto questo,
la grande ascesa delle scienze
naturali, nella seconda metà
dell’ottocento, fece pensare ad un
passaggio di testimone nella
determinazione della “verità” sulle
cose del mondo: attraverso il
confronto della teoria con i dati di
realtà, si pensava che la scienza
potesse distinguere la “verità”
dalla “non-verità” dei contenuti di
pensiero. Nei primi decenni del
novecento, la fede nella scienza
come veicolo di accertamento della
verità intorno ai fatti del mondo
sfociò quindi in quella cultura
neo-positivista che delimita, in
base al criterio di “verificabilità”
dei dati di pensiero, ciò su cui si
può indagare razionalmente arrivando
ad accertare una “verità”, da ciò
che è pura astrazione: nasce quindi
il “principio di verificazione”, la
cui formulazione risale
originariamente a Moritz Shlick. A
questo punto, però, arriva una tesi
critica, quella dello scienziato e
filosofo austriaco Karl Popper, che
fa perdere definitivamente alla
scienza la sua connotazione di
strumento attraverso il quale
arrivare ad accertare la “verità”
sulle cose del mondo: in buona
sostanza, la tesi di Popper afferma
che nessuna teoria è completamente
verificabile, in quanto dovrebbe
essere confrontata con gli infiniti
casi cui essa si riferisce, cosa
questa impossibile per definizione.
Il principio di verificazione deve
quindi essere rimpiazzato, secondo
Karl Popper, dal “principio di
falsificazione”, che vuole appunto
che le condizioni che affermano la
validità di una teoria possano
essere tali da consentirne in
qualsiasi momento la falsificazione
attraverso il confronto con i dati
dell’esperienza (confronto su base
empirica). Con questo ulteriore
passaggio, l’attività del
“conoscere” si colloca
definitivamente su di un piano di
“non assolutezza”, rimandando il
senso del “capire il mondo” da un
significato di “ricerca della
verità” ad un significato di
“ricerca dell’utile”. Demolita la
possibilità di capire in assoluto il
mondo in cui si trova, all’uomo non
rimane che cercare di costruire
quello che il grande filosofo
Emanuele Severino chiama “il
paradiso della tecnica”, ovvero
quella prospettiva di vita nella
quale capire il mondo significa
“migliorarlo”. Per “migliorare il
mondo” si intende capire lo
svolgersi delle cose, a tutti i
livelli, nell’intento di piegare il
più possibile il mondo al volere
dell’essere umano, diminuendo la
sofferenza ed aumentando la
possibilità di ottenere benessere.
Sulla base dei presupposti filosofi
ci appena delineati, diverrà quindi
chiaro il perché del rifiuto, da
parte della cultura del modello
standard, di qualsiasi sperequazione
epistemologica in psicologia
clinica: se l’allontanamento dalla
prospettiva epistemologica
popperiana non consente nessun
vantaggio nella conoscenza dei
fenomeni studiati, allora quell’allontanamento
è da respingere a-priori, al di là
di qualsiasi argomento teoretico
addotto a favore. Le teorie
epistemologiche successive a Popper,
ad esempio quelle di Feyerabend,
Kuhn, Goodman, Putnam ed altri,
nonostante possiedano molti elementi
di interesse e di fascino non hanno
trovato nessuna applicazione
vantaggiosa agli effetti
dell’evoluzione del metodo
scientifico. Sicché, lasciando
qualsiasi considerazione nel merito
specifico della teoria della
conoscenza agli epistemologi di
professione, tengo a sottolineare,
invece, come il modello standard in
psicologia clinica rifiuti qualsiasi
allontanamento dalla fondamentale
teoria metodologico-epistemologica
popperiana, a meno che nuove
concezioni che dovessero venire
elaborate in futuro non
dimostreranno di risultare più
utili, di quanto lo siano quelle del
grande filosofo austriaco, allo
sviluppo scientifico-tecnologico
della materia.
A proposito
della natura non-lineare del sistema
mente-cervello... E’ interessante notare come il
fenomeno della “contesto
dipendenza”, descritto in ambito
clinico, fornisca un illuminante
esempio di quanto le configurazioni
di risposta del sistema
mente-cervello siano influenzate
dalla presenza di automatismi su
base mnestica, che emergono
spontaneamente di fronte a
determinate “gestalt stimolo”, o in
analogia con esse. In questo senso,
dobbiamo aggiungere che il sistema
mente-cervello non fornisce però
risposte identiche tra loro a
stimoli altrettanto identici. Vi è
invece una modalità di funzionamento
ispirata all’“analogia”, per la
quale si dà l’espressione di
risposte simili tra loro rispetto a
“gestalt stimolo” analoghe. Come
abbiamo più volte evidenziato nel
corso di quest’opera, l’emergere di
schemi di risposta comportamentale
che si legano a determinate
situazioni stimolo è perfettamente
in linea con la concezione del
sistema mente-cervello, in quanto
sistema non lineare. Ed in questo
senso, la situazione della
contesto-dipendenza ci offre la
possibilità di sottolineare che il
concetto di “attrattore” diventa nei
sistemi non lineari “attrattore
strano”, proprio perché presuppone
un’elevatissima sensibilità alle
condizioni iniziali (in psicologia:
condizioni di partenza rispetto alla
contingenza percettiva affrontata)
del sistema, che fa sì che più che
aversi output identici nello
svolgersi della vita di sistema, si
hanno output simili in
corrispondenza di situazioni
identiche o simili, potendosi
tuttavia avere anche l’emissione di
risposte altamente improbabili, in
situazioni consuete, per semplice
effetto di imprevedibilità
intimamente legato alla natura ed al
funzionamento dei sistemi non
lineari. Lasciando sulla questione
la parola al celebre fisico Steven
Strogatz: “Che aspetto ha il caos?
La traiettoria vaga per sempre nello
spazio degli stati. Non può mai
chiudersi su se stessa o
intersecarsi, perché il caos non si
ripete mai” (Strogatz, 2003). Con
ciò si intende dire che, se qualcuno
ancora pensa che conoscere i
fenomeni naturali consista nel
cogliere la medesimezza che si
ripete nel tempo, ebbene possiamo
dire che questo qualcuno si sbaglia.
In particolare, gli stati attrattore
di sistema sono delle superfici
costituite da infiniti piani che
fanno sì che il sistema possa
riproporre certe sue modalità di
funzionamento, dipendentemente dalle
condizioni al contorno, senza per
questo ripetere mai esattamente se
stesso nel tempo. Come dice Strogaz,
il sistema individuato da un
“punto”, nel suo svolgersi
all’interno dello spazio
N-dimensionale delle fasi, non
traccia mai una traiettoria che
interseca se stessa, pur muovendosi
apparentemente su di una superficie
piana (una superficie che è invece
infinitamente stratificata). Vale
piuttosto quindi il principio di
“analogia” nell’autorganizzazione
dei sistemi caotici, invece che
quello di “medesimezza”. I sistemi
non lineari riproducono le loro
modalità di funzionamento secondo
forme analoghe ma mai identiche. In
quanto abbiamo appena considerato,
troviamo quindi il nucleo
concettuale del concetto di “schema”
adottato, come abbiamo visto, tanto
in psicologia sperimentale quanto in
psicologia clinica; e vi troviamo
anche l’intima essenza della
infinita generatività della mente e
dell’infinita mutevolezza della
nostra esperienza di esseri umani.
A proposito
del fenomeno mentale della
“intuizione” ...
... il processamento sistemico dei
dati di esperienza in stato di calma
fa uscire il pensiero dalle
condizioni rimuginative che
contraddistinguono fasi emotive
rabbiose, ansiose ed aversive in
genere, consentendo lo svilupparsi
di “momenti di intuizione”. Nella
sua accezione comune il termine
“intuizione” si riferisce, appunto,
alla disposizione a cogliere in
maniera immediata e chiara, non per
via di ragionamento, una verità, una
soluzione ad un problema, e via
dicendo. Provando a inquadrare il
fenomeno “intuizione” in termini
teorici scientificamente
sostenibili, potremmo dire che in
condizione di “quiete emotiva” viene
a realizzarsi il processamento, da
parte delle funzioni strumentali di
elaborazione cognitiva, della
massima quantità di informazioni
sistemiche disponibili, tra l’altro
secondo modalità che ammettono la
loro più ampia ricombinazione: in
queste condizioni, si ottiene quella
che spesso viene definita una
“soluzione creativa”. Uscendo da
qualsiasi connotazione “mitica” del
processo intuitivo, non dobbiamo
comunque pensare che esso sia
infallibile o che sia la fonte di
ogni nostra fortuna personale. Di
certo, in molte situazioni il far
tacere il “chiacchiericcio” della
mente promuovendo il ripristino di
uno stato di sostanziale quiete
emotiva, consente un rendimento a
livello cognitivo che ogni stato di
emotività fasica, anche quello a
contenuto edonico piacevole come ad
esempio l’euforia, difficilmente
potrà permettere. A partire
dall’evocazione di stati di calma,
si sviluppa quindi, in altre parole,
quello che in certe ricerche di
psicologia inerenti la qualità delle
performance personali (sportive,
intellettive, ecc.) viene definito
uno “stato di flusso”, ovvero il più
pieno dispiegamento
cognitivo-comportamentale delle
nostre potenzialità personali (Goleman,
1996).
A proposito del cervello in
relazione al vissuto di “paura”
... Gli studi condotti in ambito
neuroscientifico tendono a far
emergere come il terminale
elaborativo delle vie
talamo-limbiche sia, di fatto, una
porzione dell’encefalo a forma di
mandorla chiamata “amigdala”. Questa
struttura, posta in profondità nel
lobo temporale, è stata individuata
come fondamentale soprattutto in
relazione alla risposta di paura, ma
non solo. Rimanendo alla
determinazione della risposta di
paura, in termini neurofisiologici
avviene che gli stimoli sensoriali
(in particolare quelli visivi,
uditivi e somatosensoriali)
raggiungono il cervello, sia
attraverso una “via alta”, che
coinvolge il processamento
corticale, sia attraverso una “via
bassa”, una via che dal talamo
giunge direttamente al sistema
limbico, ed in particolare
all’amigdala laterale. La via bassa
consente una valutazione più veloce
dell’input sensoriale ma allo stesso
tempo più rozza, nel senso che
coglie aspetti essenziali della
scena, in funzione di una risposta
rapida dell’organismo a contingenze
potenzialmente pericolose di
esperienza. Il successivo afferire
di informazioni, provenienti dalla
via alta verso l’amigdala, svolge
quindi la funzione di confermare
l’individuato pericolo oppure di
cortocircuitare la risposta
d’allarme. Comunque, quando il
nucleo laterale dell’amigdala viene
attivato dall’input sensoriale, in
caso di confermato pericolo, scarica
degli impulsi nervosi verso
l’amigdala centrale, la quale dà
inizio alla sequenza elaborativa di
sistema che conduce a comportamenti
difensivi ed alle correlate
variazioni somatiche
(cardiocircolatorie, endocrine
ecc..). Gli studi condotti
sull’argomento mettono anche in
evidenza che il coinvolgimento del
nucleo centrale dell’amigdala
risulta indispensabile, sia per la
formazione di risposte
“condizionate” (in senso pavloviano)
alla reazione di paura, sia per la
facilitazione della risposta motoria
tramite l’attivazione dell’area
tegmentale ventrale a mediazione
dopaminergica. Il ruolo
dell’amigdala basale, invece,
attraverso le connessioni che essa
possiede con il nucleo accumbens, è
risultato essere funzionale
esclusivamente alla fase di
“reazione” alla paura (risposte
comportamentali overt). La risposta
comportamentale (elicitazione di uno
stato motivazionale) agli eventi
paurogeni ha quindi luogo nel
momento in cui la stima del contesto
di esperienza risulti tale da
permettere di realizzare la
sommazione degli input provenienti
dall’amigdala basale e dall’area
tegmentale ventrale (facilitazione
dopaminergica) sul nucleo accumbens,
il quale, a sua volta, connettendosi
al nucleo pallido ventrale (nuclei
della base) predispone al massimo
livello il sistema per l’emissione
di risposte motorie. Su questi
ultimi passaggi, coinvolgenti in
sinergia il nucleo centrale e basale
dell’amigdala oltreché l’area
tegmentale ventrale, torneremo
successivamente in quest’opera
parlando dell’argomento
“motivazione” (LeDoux, 1998; 2002).
A proposito
del futuro delle scienze della mente
... Rispetto ai contenuti di cui al
punto 334, diremo che l’argomento
“prerogative dello psicologo” ci
fornisce l’occasione per prospettare
una rivoluzione professionale nel
campo delle scienze della mente, che
va anche oltre la proposta che si
vuol sostenere con il modello
standard. Come molti sapranno, la
figura dello psicologo e quella
dello psichiatra sono da sempre
distinte: è lo stesso iter formativo
ad essere distinto. Tuttavia, io
credo che questo ulteriore momento
di parcellizzazione professionale,
in merito alla materia del
funzionamento della mente e
dell’intervento terapeutico su di
essa, sia del tutto inutile, se non
anche limitante. Lo psicologo non è
preparato per prescrivere farmaci,
e, di fatto, non può prescriverne;
mentre lo psichiatra ha una
preparazione sugli argomenti di
psicologia perlopiù molto
approssimativa, che comporta un
inquietante vuoto di competenze nel
valutare ed approcciare la vita
psicologica del paziente. Tutto
questo implica, di frequente,
l’esigenza di complicate sinergie
professionali (quelle tra psicologo
e psichiatra) in alternativa
all’effettuazione di percorsi
formativi lunghissimi (laurea in
medicina per lo psicologo, e
formazione psicoterapeutica per lo
psichiatra), il più delle volte
difficilmente praticabili per molti
motivi (motivi di spesa e di tempo,
innanzitutto). Sulla base di questi
presupposti, vi è quindi da
chiedersi: non sarebbe il caso di
creare una facoltà distinta di
“scienze della mente” che permetta
di riunire le competenze dello
psicologo e dello psichiatra in
un’unica grande figura
professionale? Io credo che questa
prospettiva di razionalizzazione
delle competenze sia veramente
indispensabile, in quanto aiuterebbe
senz’altro a garantire i diritti
degli utenti dei servizi di salute
mentale, rendendo al contempo più
meditato e più creativo l’approccio
del professionista. Sicuramente, vi
sono molti interessi “particolari”
ai quali dover rinunciare e diversi
problemi di ordine teorico-tecnico
da risolvere per approdare ad una
soluzione di questo tipo. Comunque,
volendo seguire questa direzione,
come spero un giorno possa avvenire,
credo che il primo passo debba
consistere imprescindibilmente nella
creazione di un modello standard
sulla vita ed il funzionamento del
sistema mente-cervello.
A proposito
della funzione riflessiva e del lobo
frontale ... Parlare di corteccia prefrontale
significa, da un punto di vista
biologico-evoluzionistico, parlare
dell’essenza stessa della condizione
esistenziale umana. Noi non siamo,
in verità, molto diversi dalla
maggior parte degli animali del
nostro pianeta: siamo “territoriali”
come molti altri animali, ed abbiamo
la spinta fondamentale a
sopravvivere e a riprodurci come
tutti gli altri animali. Come tutte
le forme di vita di questo pianeta,
eccetto alcuni virus, ci sviluppiamo
sulla base di un progetto genetico
“scritto” con gli stessi quattro
nucleotidi che stanno a fondamento
del DNA batterico, ed il nostro
organismo sintetizza proteine a
partire dal DNA che possiede, così
come fa una qualsiasi forma di vita
unicellulare. Neanche la coscienza,
ovvero la capacità fondamentale di
rappresentare il mondo ponendoci a
soggetto innanzi ad esso, è
verosimilmente una nostra
prerogativa: diversi animali a noi
vicini, infatti, hanno tutte le
caratteristiche comportamentali che
autorizzano a ritenerli come forme
di vita “coscienti”. Il cuore della
nostra umanità, nel bene e nel male,
sembra invece risiedere proprio
nell’eccezionale sviluppo della
nostra corteccia prefrontale.
L’enorme complessità della
dimensione esistenziale umana, con
tutta la sua tragica consapevolezza
della vita, dell’universo,
dell’essere, dipende dal prodigioso
“scherzo della natura” in cui
consiste l’abnorme sviluppo della
porzione prefrontale del nostro
cervello, la “stanza dei bottoni”
della mente, come l’abbiamo
precedentemente definita in quest’opera.
Con le parole degli scienziati
Robert Knight e Donatella Scabini:
“La complessità del comportamento
umano va di pari passo con l’esteso
sviluppo della corteccia prefrontale
che include sino al 35 per cento
della neocorteccia nell’uomo. Ampie
connessioni reciproche alle regioni
corticali e subcorticali pongono la
corteccia prefrontale dorsolaterale
in una posizione unica per il
controllo ed il monitoraggio di
molti processi cognitivi. (…) Quando
si verifica (corsivo mio) la
compromissione prefrontale (…)
divengono invariabilmente evidenti
pronunciate anormalità. Predominano
i deficit di attenzione,
pianificazione, selezione della
risposta, codifica temporale,
metamemoria, giudizio ed intuizione.
Nel danno prefrontale dorsolaterale
bilaterale avanzato diviene
clinicamente evidente la
perseverazione, che si manifesta a
livello comportamentale con il
rimanere fissati nel presente e
nell’essere incapaci di spostarsi
avanti o indietro nel tempo” (in:
Mado Proverbio. Zani, 2000). La
corteccia prefrontale, in altre
parole, sottende e coordina tutte le
nostre proprietà mentali di ordine
“superiore”, letteralmente
rendendoci mentalmente
“tridimensionali”, ovvero facendoci
vivere coscientemente in una
prospettiva che include passato,
presente e futuro. Con la corteccia
prefrontale emerge quindi dal nostro
repertorio esperienziale la
proprietà della “riflessività” e
della “autoriflessività”: in questo
modo, l’uomo diventa
irrimediabilmente diverso dalle
altre forme di vita del pianeta,
anche se rimane con loro
strettamente imparentato.
A proposito della motivazione
all’attaccamento ...
La questione relativa a quanto il
vissuto di attaccamento influisca
nel determinare l’organizzazione
psicologica individuale trova un
interessante sviluppo in delle
ricerche condotte su primati non
umani. In particolare, alcuni
studiosi hanno individuato in una
popolazione di macachi dei portatori
di caratteristiche genetiche che
predispongono allo sviluppo di
deficit nella produzione di
serotonina cerebrale. Sulla base di
questa scoperta, il gruppo di
ricerca ha quindi predisposto un
setting sperimentale riassumibile in
questi termini: i cuccioli di macaco
portatori della tara genetica sono
stati posti, al termine dello
svezzamento, in due diverse
condizioni di contatto sociale,
ovvero ad un gruppo è stato permesso
di avere regolari contatti con la
madre, mentre all’altro sono stati
concessi contatti sociali solo con i
coetanei. La stessa situazione
sperimentale è stata predisposta per
cuccioli senza la suddetta
caratteristica genetica sfavorevole.
I risultati ottenuti sono così
riassunti da Giovanni Liotti: “Al
termine del periodo di sei mesi, la
concentrazione di metaboliti della
serotonina nel liquor
cefalorachidiano (liquido in cui si
trova sospeso l’intero sistema
nervoso centrale.. NDA) era molto
bassa nei macachi con gene
sfavorevole al ricambio della
serotonina che erano stati posti a
contatto solo con i pari, mentre era
elevato nei piccoli pure allevati
solo nel contatto con i coetanei, ma
con corredo genetico favorevole alla
funzione serotoninergica.
Sorprendentemente non c’era invece
alcuna differenza nelle
concentrazioni di prodotti del
ricambio della serotonina fra
macachi con gene favorevole e con
gene sfavorevole a tale ricambio,
quando queste scimmie si erano
sviluppate nella piena e protratta
disponibilità delle cure materne” (Liotti,
2001). Lo scienziato continua,
dicendo poi che questi risultati
depongono clamorosamente a favore
dell’interazione geni-ambiente nella
modulazione della sintesi dei
neurotrasmettitori. Io ho invece
deciso di citare questo studio
sperimentale a dimostrazione di come
le esperienze di attaccamento
possano avere anche un peso diverso
nell’organizzazione della vita
psicologica, dipendentemente dal
profilo genetico soggettivo.
Tornando ai risultati della ricerca,
infatti, ci accorgiamo di come i
macachi con profilo genetico
favorevole si sviluppino
adeguatamente anche solo stabilendo
contatti con i coetanei, condizione
questa che risulta invece
insufficiente per gli animali con
profilo genetico sfavorevole.
Uscendo dalle ipersemplificazioni
dei puri modelli teorici, la ricerca
ci dimostra sistematicamente come la
realtà di espressione e di
funzionamento dei fenomeni della
natura, e dei fenomeni della “vita”
in particolare, sia sempre più
complessa di quello che ci
piacerebbe credere. Posto, infatti,
come dimostrano le ricerche, che
l’assoluta deprivazione di contatti
sociali produce “universalmente” dei
visibili effetti disamornici sullo
sviluppo psicologico, è altrettanto
doveroso rilevare come l’espressione
del vissuto di attaccamento possa
avere una ricaduta diversa, nel
modellamento della funzionalità
nervosa, dipendentemente dalla base
temperamentale individuale, ovvero
dipendentemente dai vincoli posti al
sistema mente-cervello dal suo
assetto genetico. Accettando la
sfida della complessità posta dal
nostro oggetto di studio, la ricerca
futura dovrà senz’altro approfondire
questi argomenti, mettendoci sempre
più nella condizione di inquadrare
con chiarezza le sfumature legate
alla dimensione della
“individualità”, sia riguardo
all’attaccamento, sia in relazione a
qualsiasi altro argomento teorico.
Sempre a
proposito di non-linearità ...
In base al presupposto fondamentale
di non-linearità del sistema
mente-cervello ed in considerazione
della sua connotazione di “sistema
aperto”, l’obiettivo di massima
della psicologia clinica non è
quello di individuare un’ipotetica
lagrangiana, in funzione di
un’improbabile predittività
“infallibile” sulla vita
psicologica. L’obiettivo è, invece,
quello dell’individuazione di solide
coordinate concettuali e tecniche
che permettano una lettura
verosimile del caso clinico,
promuovendo utili trasformazioni del
vissuto psicologico. Sottolineare
l’importanza di ricavare delle
“coordinate concettuali”, che
orientino il lavoro clinico dal
punto di vista teorico-tecnico,
significa specificare come nessuno
abbia l’ingenua pretesa di pensare
che, a partire da leggi scientifiche
sistematicamente ordinate, si possa
arrivare a ridurre il lavoro del
sistema mente-cervello ad un insieme
di azioni/reazioni assolutamente
prevedibili, alla stessa stregua di
una semplice reazione chimica. Le
coordinate concettuali servono
invece per raccogliere nella maniera
più flessibile, ma anche più
ordinata che sia possibile,
quell’individualità del paziente,
che nessuno psicologo può sognarsi
di far passare in secondo piano
nello svolgersi del suo lavoro
clinico. Procedere con rigore
teorico non significa quindi
arrendersi al grigiore della
razionalità, sacrificando la
conoscenza della continua meraviglia
del mondo; ma significa invece
scoprire l’ordine che emerge dalla
continua generatività del reale,
trovando senso a ciò che potrebbe
apparentemente sembrare del tutto
caotico o misterioso.
A proposito
di medicina e psicologia ...
….. (…) gli studi di area
psicosomatica condotti in questi
ultimi anni hanno permesso di
evidenziare sempre più lo stretto
legame esistente tra la vita
psicologica e le vicissitudini di
funzionamento del nostro organismo.
Partendo da presupposti di
concezione e di metodo mutuati dalla
medicina, la “psicologia della
salute” ha saputo condurre la
ricerca su quest’area di studio
verso una dimensione di complessità
che è la stessa che caratterizza gli
approcci più evoluti della
psicologia contemporanea in genere.
Quindi, quella che era..“la pretesa
di stabilire un valore assoluto
degli stressor nella determinazione
della salute psicofisica” è
diventata..“studio dell’interazione
tra eventi di vita e stili
individuali di rappresentazione e di
reazione”; e ciò che era...“la
volontà di stabilire un’influenza
secondo una modalità tutto-o-nulla
della vita psicologica sulla salute
fisica”, è diventata..“piena
consapevolezza della causalità
multifattoriale degli eventi di
malattia”. In questo senso,
calandosi con i metodi della scienza
nello studio del rapporto tra corpo
e mente, la psicologia ha preso le
distanze, sia dal meccanicismo della
“vecchia” scienza, sia dalle
astrattezze monotematiche degli
approcci speculativi che esigevano
di far ruotare intere costellazioni
fenomenologiche intorno ad unico e
monolitico agente causale. Seguendo
questa direzione, la psicologia si
sta ponendo come battistrada teorico
per la stessa medicina, dal momento
che anche negli ambienti medici si
va formando la consapevolezza che
per migliorare l’azione terapeutica
occorre leggere in maniera più
efficace nell’individualità del
paziente. Da qui, la nascita di
quell’approccio “olistico” in
medicina che tenta di sviluppare e
diffondere una visione non più
parcellizzante del funzionamento
dell’organismo, spostando l’enfasi
teorica dalla “linearità” di
concezione di stampo ottocentesco,
alla “complessità” di concezione
evidenziata dagli studi sui sistemi
non lineari. Nonostante la medicina
sia maggiormente allineata,
complessivamente, alla cultura della
scienza di quanto lo sia la
psicologia, la psicologia va
formandosi definitivamente come
scienza accogliendo pienamente gli
influssi di quel “paradigma della
complessità”, che rappresenta un
modello di scienza più evoluto di
quello “galileiano” preso a
riferimento dalla nascente medicina
moderna di fine ottocento. Come
direbbe l’epistemologo Paul Carl
Feyerabend, i processi culturali e
sociologici che determinano
l’evoluzione di una scienza sono
molto più “magmatici” di quanto
possa prevedere ogni forma di
linearità dialettica (come nel caso
della concezione Kuhniana). Quello
che poteva sembrare un angosciante
ritardo culturale della psicologia
nei confronti della medicina,
potrebbe infatti trasformarsi in un
tema di sorpasso, a patto che la
psicologia si allinei
definitivamente, a questo punto, in
una concezione unificata dei suoi
argomenti di studio.
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